CEDU – Ergastolo ostativo – Sentenza sul ricorso n. 77633/16

b) Applicazione di questi principi alla presente causa

93. La Corte osserva anzitutto che, nella presente causa, il ricorrente non lamenta una netta sproporzione della pena dell’ergastolo alla quale è stato condannato (si vedano, tra altre, Matiošaitis e altri c. Lituania, n. 22662/13 e altri 7, § 157, 23 maggio 2017, e Vinter, sopra citata, § 102), ma la dedotta non riducibilità de jure e de facto di tale pena.

94. La Corte osserva inoltre che la presente causa si distingue dalle cause in materia di ergastolo presentate in precedenza contro l’Italia, nelle quali è stata chiamata a esaminare la pena dell’ergastolo di cui all’articolo 22 del CP. Nella decisione Garagin c. Italia ((dec.) n. 33290/07, 29 aprile 2008; si veda anche Scoppola c. Italia (dec.), n. 10249/03, 8 settembre 2005), essa ha dichiarato che l’ergastolo rimane compatibile con l’articolo 3 della Convenzione, esprimendosi in questi termini:
«(…) il condannato all’ergastolo può essere liberato, e dal testo dell’articolo 176 del CP. Ai sensi di tale disposizione, il condannato all’ergastolo che abbia tenuto un comportamento tale da mostrare un sincero ravvedimento, può essere liberato dopo avere scontato ventisei anni di carcere. Dopo avere scontato ventisei anni di carcere può anche essere ammesso al regime di semi-libertà (articolo 50 c. 5 della legge n. 354 del 1975 (…), in Italia le pene perpetue sono (…) de jure e de facto riducibili. Dunque, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione né che il suo mantenimento in carcere, fosse anche per una lunga durata, sia in sé costitutivo di un trattamento inumano e degradante.»
Inoltre, nella sentenza Vinter (sopra citata, § 117), la Corte si è fondata tra l’altro sul diritto interno italiano – legislazione e giurisprudenza della Corte costituzionale – per affermare che la prassi degli Stati contraenti riflette la volontà di agire in favore del reinserimento dei condannati all’ergastolo e nel contempo di offrire loro una prospettiva di liberazione.

95. La Corte osserva che, nel caso di specie, il regime applicabile alla reclusione perpetua è il risultato dell’applicazione combinata dell’articolo 22 del CP sopra citato con gli articoli 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Questa categoria specifica di pena perpetua è definita, a livello interno «ergastolo ostativo».

96. Essa osserva che le suddette disposizioni prevedono un trattamento penitenziario differenziato che ha l’effetto di impedire che siano accordati la liberazione condizionale e l’accesso agli altri benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione (ad eccezione della «liberazione anticipata») se la condizione necessaria di collaborazione con la giustizia non è soddisfatta. In effetti, se per tutte le misure che favoriscono il reinserimento progressivo del condannato all’ergastolo, previsto dall’articolo 22 del CP, il legislatore ha previsto alcune condizioni di accesso (buona condotta, partecipazione al progetto di riadattamento, progressione del percorso di trattamento, prova positiva dell’emenda) in funzione della misura richiesta, nell’articolo 4 bis è stata posta una condizione specifica (paragrafo 32 supra) che ostacola la concessione da parte del giudice nazionale delle misure di sospensione.

97. La Corte osserva che il contenuto di questa collaborazione è regolato dall’articolo 58 ter (paragrafo 33 supra): il condannato deve fornire alle autorità elementi decisivi che permettano di prevenire le ulteriori conseguenze del reato o agevolare l’accertamento dei fatti e l’identificazione dei responsabili di reati. Il condannato è dispensato da questo obbligo se tale collaborazione può essere definita «impossibile» o «irrilevante» (paragrafo 46 supra) e se dimostra la rottura di qualsiasi legame attuale con il gruppo mafioso (paragrafo 32 supra).

i. Sulla prospettiva di liberazione e sulla possibilità di chiedere la liberazione condizionale

98. La Corte osserva, analogamente al ricorrente e al Governo (paragrafi 68 e 77 supra), che, a causa dell’esistenza della circostanza aggravante legata al fatto di avere svolto il ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza, ritenuta a suo carico, la collaborazione dell’interessato non può essere definita «impossibile» o «irrilevante» ai sensi della legislazione vigente e della giurisprudenza della Corte di cassazione (paragrafi 33 e 46 supra).

99. Perciò, allo scopo di determinare nel caso di specie se la pena perpetua detta «ergastolo ostativo» sia de jure e de facto riducibile, ossia se offra una prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame (si veda, tra molte altre, Hutchinson, sopra citata, § 42), la Corte si concentrerà sull’unica opzione aperta al ricorrente: collaborare nell’ambito delle attività di indagine e azione penale condotte dalle autorità giudiziarie (paragrafo 77 supra), per avere una possibilità di chiedere e ottenere la sua liberazione.

100. La Corte osserva che le circostanze relative alla situazione in questione sembrano distinguersi dai fatti all’origine della causa Öcalan c. Turchia (n. 2) (nn. 24069/03 e altri 3, §§ 200-202, 18 marzo 2014). In effetti, in questa causa, il contrasto tra l’ordinamento giuridico turco e l’articolo 3 della Convenzione derivava dal dispositivo legislativo allora in vigore. Questo vietava al ricorrente, a causa della sua condizione di condannato alla pena dell’ergastolo aggravato per avere commesso un reato contro la sicurezza dello Stato, di chiedere, in un determinato momento nel corso dell’esecuzione della condanna, la propria liberazione per motivi legittimi in ordine alla pena. Si trattava di un effetto automatico della legge in questione, che escludeva qualsiasi possibilità di ottenere il riesame della pena ed era legato alla natura del reato ascritto al ricorrente.

101. La Corte osserva che, nella presente causa, la legislazione interna non vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla «collaborazione con la giustizia».

102. In effetti, la situazione propria al ricorrente, derivante dall’articolo 4bis, si situa in questo modo tra quella del condannato all’ergastolo ordinario, prevista dall’articolo 22 del CP, la cui pena è riducibile de jure e de facto, e quella del detenuto a cui è preclusa dal sistema, a causa di un ostacolo giuridico o pratico, qualsiasi possibilità di liberazione, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

103. La Corte prende nota delle affermazioni del Governo (paragrafo 75 supra) secondo le quali l’articolo 4bis ha lo scopo di chiedere ai condannati la dimostrazione tangibile della loro «dissociazione» dall’ambiente criminale e dell’esito positivo del percorso di risocializzazione, attraverso una collaborazione utile con la giustizia volta alla «disintegrazione» dell’associazione mafiosa e al ripristino della legalità (si veda anche la Corte costituzionale, paragrafo 40 supra). A suo parere, l’obiettivo di politica criminale sotteso alla disciplina del 4 bis è pertanto chiaramente definito, come del resto anticipato nella sentenza n. 306/1993 della Corte costituzionale (paragrafo 39 supra): il legislatore ha espressamente privilegiato le finalità di prevenzione generale e di protezione della collettività, chiedendo ai condannati per i delitti in questione di dare prova di collaborazione con le autorità, uno strumento considerato fondamentale nella lotta contro il fenomeno mafioso. Secondo il Governo, è questa specificità del fenomeno che ha portato all’esigenza di prevedere un regime della reclusione perpetua diverso dal regime ordinario previsto dall’articolo 22 del CP.

104. A proposito del fenomeno mafioso, la Corte ritiene utile fare riferimento alle osservazioni del Governo (paragrafo 75 supra) e alla sentenza della corte d’assise di Palmi (paragrafo 9 supra) in cui vengono menzionati la specificità dell’associazione per delinquere di tipo mafioso e il patto concluso tra i suoi membri, che si caratterizza per il fatto di essere particolarmente solido e continuativo.

105. Essa rinvia anche alla sentenza della Corte di cassazione n. 46103 del 7 novembre 2014 (paragrafo 47 supra), nella quale questa giurisdizione ha rammentato che il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, un reato permanente, presuppone l’esistenza di un vasto programma criminale, proiettato verso il futuro e senza alcuna limitazione temporale. Secondo l’Alta giurisdizione, lo stato di reclusione di un membro di un’associazione mafiosa non implica la cessazione automatica della sua partecipazione all’associazione in questione. La conclusione che ne trae la Corte di cassazione è che la «permanenza» del reato di cui all’articolo 416 bis è compatibile con l’inattività dell’associato o con lo stato silente dell’associazione, cosicché il rapporto associativo cessa solo nel caso oggettivo di cessazione della consorteria o nei casi soggettivi di decesso, rottura del legame individuale o esclusione da parte degli altri associati, (paragrafo 47 supra).

106. L’articolo 4 bis prevede dunque una presunzione di pericolosità del condannato legata al tipo di reato ascrittogli. Questa pericolosità e il legame con l’ambiente criminale di origine non spariranno unicamente a causa della reclusione. La Corte osserva che, secondo il Governo, è per questo motivo che la disposizione in questione chiede al condannato di dimostrare concretamente, con la propria collaborazione, che ha rotto con l’ambiente criminale di appartenenza, il che starebbe anche ad indicare l’esito positivo del processo di risocializzazione.

107. La Corte rammenta di avere affermato che la scelta di un determinato regime di giustizia penale fatta da uno Stato, ivi compreso il riesame della pena e le modalità di liberazione, non è soggetta in linea di principio al controllo europeo da essa esercitato, purché il sistema adottato non contravvenga ai principi della Convenzione (Vinter, sopra citata, § 104).

108. Essa ha anche dichiarato che, se la repressione rimane una delle finalità della reclusione, le politiche in materia di pena in Europa pongono ormai l’accento sull’obiettivo di reinserimento che persegue la detenzione, anche nel caso di detenuti condannati all’ergastolo (ibidem, §§ 115-118), e in particolare verso la fine di una pena detentiva di lunga durata (Dickson, sopra citata, § 75, con il riferimento ai paragrafi 28-36). Il principio di reinserimento è rispecchiato nelle norme internazionali ed è attualmente riconosciuto nella giurisprudenza della Corte (Murray, sopra citata, § 102, con i riferimenti ivi citati).

109. A livello interno, la Corte osserva che, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 313 del 1990 (paragrafo 38 supra), la giurisprudenza di questa alta giurisdizione sulla funzione della pena dimostra il ruolo centrale della risocializzazione, che deve accompagnare la pena dalla sua formulazione normativa astratta alla sua esecuzione concreta: la Corte costituzionale ha affermato che quest’ultima deve orientare l’azione del legislatore, del giudice del processo, del magistrato di sorveglianza e delle autorità penitenziarie.

110. Queste prime considerazioni portano la Corte a esaminare la questione centrale che si pone nel caso del ricorrente, ossia se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena.

111. La Corte osserva che il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione trattamentale del detenuto, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Mano a mano che fa progressi in carcere, ammettendo che ne faccia, al condannato viene offerta dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale) che lo accompagnino nel suo «percorso verso l’uscita».

112. Si tratta di una declinazione della funzione di correzione della detenzione evocata nella sentenza Murray (sopra citata, § 101).

113. La Corte rammenta inoltre di avere affermato che il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. Essa ha precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere (…) cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili» (Vinter, sopra citata, § 122).
Essa ha anche dichiarato che le autorità nazionali devono dare ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserirsi (Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, nn. 15018/11 e 61199/12, § 264, CEDU 2014 (estratti)). Si tratta chiaramente di un obbligo positivo di mezzi, e non di risultato, che implica di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione (Murray, sopra citata, § 104). A questo proposito, la Corte ha precedentemente concluso che tale obbligo era stato disatteso in cause nelle quali erano il regime o le condizioni di detenzione ad impedire la correzione dei detenuti (Harakchiev e Tolumov, sopra citata, § 266).

114. La Corte prende atto della posizione, nel caso di specie, del Governo, che sostiene che l’ostacolo rappresentato dall’assenza di «collaborazione con la giustizia» non è il risultato di un automatismo legislativo, che priverebbe in modo assoluto il ricorrente di qualsiasi prospettiva di liberazione, ma piuttosto la conseguenza di una scelta individuale. Il ruolo centrale attribuito alla volontà del condannato, che sarebbe l’unico artefice del proprio destino, costituisce uno degli argomenti principali del Governo (paragrafo 79 supra), che si fonda peraltro sulla giurisprudenza della Corte costituzionale (paragrafo 41 supra).

115. La Corte prende atto anche della tesi del ricorrente che, da parte sua, afferma che il fatto di collaborare con le autorità comporterebbe per lui o per i suoi famigliari un rischio di esposizione a rappresaglie da parte dell’organizzazione mafiosa e si scontrerebbe con la sua intima convinzione secondo la quale egli è innocente (paragrafo 70 supra). Egli critica anche la logica strumentale del sistema che fa dipendere la sua possibilità di uscita dal fatto di offrire la propria totale collaborazione (paragrafo 71 supra).

116. Ora, se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di tale scelta, così come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato.

117. Senza volere analizzare la fondatezza dell’espressione di innocenza del ricorrente – il che, del resto, non è di sua competenza –, la Corte constata che quest’ultimo ha solo affermato che, per non andare contro la propria intima convinzione e per non dover subire reazioni violente da parte dei suoi ex associati, egli ha deciso di non collaborare con la giustizia (paragrafo 70 supra). Su questo aspetto è opportuno ricordare le dichiarazioni della terza parte «L’altro diritto onlus» relative alla sua attività di osservazione diretta di detenuti condannati all’ergastolo previsto dall’articolo 4 bis. Secondo questo terzo interveniente, il motivo principale del rifiuto di collaborare con la giustizia consisterebbe nel timore per i detenuti condannati per reati di tipo mafioso di mettere in pericolo la loro vita o quella dei loro famigliari (paragrafo 89 supra).

118. La Corte ne deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Del resto, ciò è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993, nella quale detta Corte ha affermato che l’assenza di collaborazione non indicava necessariamente il mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa (paragrafo 39 supra).

119. Inoltre, la Corte osserva, analogamente a quanto ha fatto la Corte costituzionale in questa stessa sentenza, che ci si potrebbe ragionevolmente trovare di fronte alla situazione in cui il condannato collabora con le autorità senza che, in ogni caso, il suo comportamento rispecchi una correzione da parte sua o la sua «dissociazione» effettiva dall’ambiente criminale, avendo l’interessato agito in tal modo al solo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge.

120. Essa constata che, se altre circostanze o altre considerazioni possono spingere il condannato a rifiutarsi di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta a uno scopo meramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente.

121. Essa osserva infatti che, considerando la collaborazione con le autorità come l’unica dimostrazione possibile della «dissociazione» del condannato e della sua correzione, non si tiene conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la «dissociazione» dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione la giustizia.

122. La Corte rammenta, come sopra esposto (paragrafo 111 supra), che il sistema penitenziario italiano offre una serie di occasioni progressive di contatto con la società – che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà, finalizzati a favorire il processo di risocializzazione del detenuto. Ora, il ricorrente non ha beneficiato di queste occasioni progressive di reinserimento sociale.

123. La Corte osserva che questa constatazione è vera anche se i rapporti di osservazione del ricorrente in ambiente carcerario, presentati a sostegno della domanda di liberazione condizionale (paragrafo 24 supra), hanno indicato una evoluzione della personalità dell’interessato giudicata positivamente. Parimenti, essa osserva che, pur essendo stata emessa in un quadro giuridico diverso, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di L’Aquila che ha posto fine al regime del «41 bis» indicava i risultati positivi del percorso di risocializzazione del ricorrente (paragrafo 16 supra).

124. La Corte constata, per di più, che il ricorrente ha dichiarato di non essere mai stato sottoposto a sanzioni disciplinari e di avere accumulato dalla sua condanna, in ragione della sua partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata (paragrafo 73 supra), ma che, a causa dell’assenza di collaborazione da parte sua, non può beneficiare in pratica della deduzione di pena ottenuta.

125. La Corte ritiene che la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità (Murray, sopra citata, § 102).

126. La Corte rammenta che, per questo motivo, il condannato ha il diritto di sapere cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili (Vinter e altri, sopra citata, § 122, e Trabelsi, sopra citata, §§ 115 e 137).

127. Nel caso di specie, la Corte ritiene che l’assenza di «collaborazione con la giustizia» determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione (si vedano, tra altre, Harakchiev e Tolumov, sopra citata, § 264, e Matiošaitis e altri, sopra citata, § 177). Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo (Vinter, sopra citata, § 112).

128. La Corte osserva infatti che il ricorrente si trova nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo in ordine alla pena che giustifichi il suo mantenimento in detenzione, e che pertanto tale mantenimento è contrario all’articolo 3 della Convenzione (ibidem, § 129), in quanto, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale (paragrafi 116 e 120 supra), il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna.

129. Inoltre, la Corte sottolinea che la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena (Murray, sopra citata, § 100, con la giurisprudenza ivi citata). L’intervento del giudice è limitato alla constatazione del mancato rispetto della condizione di collaborazione, senza poter effettuare una valutazione del percorso individuale del detenuto e della sua evoluzione sulla strada della risocializzazione. Questa è peraltro la portata della valutazione del tribunale di sorveglianza di L’Aquila nel caso in questione. Quest’ultimo ha respinto la richiesta di liberazione condizionale del ricorrente, rilevando la mancanza di collaborazione con la giustizia (paragrafo 25 supra) senza procedere ad una valutazione degli eventuali progressi che il ricorrente sosteneva di aver compiuto dalla sua condanna.

130. Certo, la Corte riconosce che i reati per i quali il ricorrente è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società. Rileva, inoltre, che l’introduzione dell’articolo 4 bis è il risultato della riforma del regime penitenziario del 1992, avvenuta in un contesto di emergenza in cui il legislatore è dovuto intervenire, dopo un episodio estremamente significativo per l’Italia (paragrafo 85 supra), in una situazione particolarmente critica. Tuttavia, la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti. Pertanto, la natura dei reati addebitati al ricorrente è priva di pertinenza ai fini dell’esame del presente ricorso dal punto di vista del suddetto articolo 3 (Öçalan, sopra citata, §§ 98 e 205, con la giurisprudenza ivi citata). Peraltro, la Corte ha affermato che la funzione di risocializzazione ha lo scopo ultimo di prevenire la recidiva e proteggere la società (Murray, sopra citata, § 102).

131. Va ricordato che la Corte, in una causa riguardante la durata della custodia cautelare, e quindi sul terreno dell’articolo 5 della Convenzione, ha richiamato il principio secondo cui «una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria» (Pantano c. Italia, n. 60851/00, § 69, 6 novembre 2003). Questa affermazione lo è ancor più sul terreno dell’articolo 3 della Convenzione, dato il carattere assoluto di questa disposizione, che non è soggetta ad alcuna eccezione (si veda, tra molte altre, Trabelsi, sopra citata, § 118).

132. La Corte rileva, ad abundantiam, che a livello nazionale sembra svilupparsi la recente tendenza di rimettere in discussione la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, come evidenziano la sentenza della Corte Costituzionale n. 149 dell’11 luglio 2018 (paragrafo 43 supra), l’ordinanza di rinvio della Corte di Cassazione alla Corte Costituzionale in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis (paragrafo 48 supra), nonché due recenti progetti di riforma dell’articolo 4 bis di origine governativa (paragrafi 49 e 50 supra).
ii. Sugli altri rimedi interni volti a ottenere il riesame della pena;

133. Per quanto riguarda infine le affermazioni del Governo, secondo le quali il sistema interno prevede altri due rimedi per ottenere il riesame della pena, ossia la domanda di grazia presidenziale e la domanda di sospensione della pena per motivi di salute (paragrafo 81 supra), la Corte rammenta la propria giurisprudenza pertinente nel caso di specie secondo la quale la possibilità per un detenuto che sconta una pena perpetua di beneficiare di una grazia o di una scarcerazione, per motivi di umanità inerenti a un cattivo stato di salute, a una invalidità fisica o all’età avanzata, non corrisponde a ciò che ricomprende l’espressione «prospettiva di liberazione» utilizzata a partire dalla sentenza Kafkaris (sopra citata, § 127; si vedano anche Öcalan, sopra citata, § 203, e László Magyar c. Ungheria, n. 73593/10, §§ 57 e 58, 20 maggio 2014).

134. In particolare, la Corte osserva che, nella sua sentenza n. 200 del 18 maggio 2006 (paragrafo 44 supra), la Corte costituzionale ha dichiarato che il potere di grazia presidenziale risponde a finalità puramente umanitarie e serve a temperare la rigidità della legge penale. Per quanto riguarda le domande di sospensione della pena per motivi di salute, esse corrispondono a ciò che la Corte ha definito come «un riesame limitato a motivi umanitari» (Hutchinson, sopra citata, § 43, Vinter, sopra citata, § 127, e Matiošaitis e altri, sopra citata, § 173).

135. Peraltro, la Corte prende nota dell’affermazione del ricorrente secondo la quale nessun detenuto condannato all’ergastolo disciplinato dall’articolo 4 bis ha mai beneficiato di una decisione di grazia presidenziale (paragrafo 74 supra). A questo riguardo, il Governo non ha fornito alcun esempio di condannato alla pena perpetua di questo tipo che abbia ottenuto una sospensione della pena in virtù di una grazia presidenziale (si vedano Bodein c. Francia, n. 40014/10, § 59, 13 novembre 2014, e, a contrario, Kafkaris, sopra citata, § 103).

iii. Conclusione

136. La Corte rammenta che la dignità umana, che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà (Vinter, sopra citata, § 113).

137. Alla luce dei principi sopra menzionati, e per i motivi sopra esposti, la Corte considera che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente, in applicazione dell’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, detta «ergastolo ostativo», limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte rigetta perciò l’eccezione del Governo relativa alla qualità di vittima del ricorrente e conclude che le esigenze dell’articolo 3 in materia non sono state rispettate.

138. Ciò premesso, essa ritiene che la constatazione di violazione pronunciata nella presente causa non possa essere intesa nel senso di dare al ricorrente una prospettiva di liberazione imminente (si vedano, tra altre, Harakchiev e Tolumov, sopra citata, § 268, e László Magyar, sopra citata, § 59).

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