VERSO UNA TUTELA GIURIDICA DELLE MIGRAZIONI INDOTTE DA CAUSE AMBIENTALI?

(Relazione nel convegno “Cambiamenti Climatici e Migrazioni”, tenutosi a a Roma 17/10/2018, organizzato dall’Associazione dei Giuristi Democratici con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma).

di: Anna Brambilla, Avvocato, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI)

Da dove deve partire la riflessione del giurista o dell’operatore legale che vuole cercare di far riconoscere una forma di protezione a chi lascia il proprio Paese per motivi ambientali Ad oggi in quali casi, in Italia, si è arrivati al riconoscimento di forme di protezione per chi ha lasciato il proprio Paese per motivi ambientali

Il permesso di soggiorno per calamità rappresenta un passo avanti o un passo indietro per la tutela di coloro che lasciano il proprio Paese per motivi ambientali

Questi sono solo alcuni dei possibili quesiti da cui partire per una riflessione sulle cd. migrazioni ambientali e sulla tutela giuridica offerta a chi lascia il proprio Paese in ragione (o anche in ragione) di eventi connessi al cambiamento climatico o a disastri naturali.

La riflessione attorno a questi temi impone alcune brevi considerazioni iniziali.

In primo luogo, gli eventi ambientali che possono determinare uno spostamento di popolazione o una migrazione sono molteplici.

Si può infatti distinguere tra eventi a rapida insorgenza ed eventi a lenta insorgenza, disastri connessi allo sfruttamento risorse naturali o ai grandi progetti di sviluppo.

Molti dei Paesi da cui provengono i migranti che giungono in Europa sono interessati da cambiamenti climatici o mutamenti ambientali o sfruttamento delle risorse naturali. Individuare quali eventi o fenomeni interessano un determinato Paese può aiutare a far emergere il nesso tra evento o fenomeno ambientale e migrazione e/o a comprendere il nesso esistente tra i vari fattori che hanno portato alla migrazione (es. mutamento ambientale/conflitto/migrazione)

Non sempre tuttavia il mutamento ambientale determina immediatamente una migrazione internazionale. Molto frequentemente avviene inizialmente una migrazione interna o uno spostamento di popolazione che ha come conseguenza la presenza per periodi più o meno lunghi di tempo di un numero elevato di sfollati interni.

Il mutamento del proprio ambiente di vita dovuto a fattori climatici, antropici o naturali può emergere in modo diverso nella narrazione di chi è stato costretto a lasciare il proprio Paese e presenta richiesta di protezione in Italia ma non sempre è possibile individuare immediatamente il nesso causale tra mutamento ambientale e migrazione.

Se si guarda ad esempio ai richiedenti protezione internazionale che provengono dalle regioni del Delta del Niger, si potranno avere richieste di protezione connesse ai movimenti di lotta contro lo sfruttamento delle risorse petrolifere da parte delle multinazionali o alle violenze connesse alla repressione di tali movimenti o ancora alla necessità di lasciare le proprie zone d’origine a causa dell’inquinamento prodotto dallo sfruttamento petrolifero. In altri Paesi dell’Africa Sub Sahariana sono eventi a lenta insorgenza come la siccità o la desertificazione a rendere necessario lo spostamento.

E ancora, tra i richiedenti protezione internazionale provenienti dal Bangladesh è molto frequente che la migrazione, la situazione di indebitamento connessa alla migrazione, siano stati determinati sia da fattori politici e sociali sia anche da eventi naturali disastrosi come inondazioni, cicloni e alluvioni di portata distruttiva.

Nell’ordinamento nazionale, il legislatore, già nel 1998, aveva previsto misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali da adottarsi per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravita’ in Paesi non appartenenti all’Unione Europea (art. 20 del D.lgs. 286/98).

Sebbene tali misure non siano mai state adottate in risposta ad eventi naturali, con una circolare del 9 gennaio 2008 il Ministero dell’Interno decise di offrire una tutela parziale, nella forma della sospensione delle espulsioni e dell’agevolazione dei ricongiungimenti familiari, ai cittadini del Bangladesh impossibilitati a tornare nel proprio Paese d’origine a causa dei disastri provocati del ciclone  Sidr, che colpì alcune zone costiere del Paese asiatico nel novembre 2007 provocando centinaia di morti ed ingenti danni.

A distanza di circa un mese tuttavia, in ragione dell’incremento delle domande di asilo presentate proprio da cittadini del Bangladesh, il Ministero dell’Interno intervenì con una nuova circolare precisando che in caso di insussistenza di fondati motivi di persecuzione nel Paese d’origine non poteva ritenersi giustificata la concessione della protezione umanitaria. Se nel 2009, la concessione della protezione umanitaria in ragione di eventi naturali appare essere escluso, a distanza di alcuni anni, una circolare della Commissione nazionale per il diritto di asilo segna un mutamento di tendenza, includendo la sussistenza di gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità e sicurezza tra le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La vulnerabilità della persona colpita da una calamità naturale nello Stato di provenienza o la perdita non solo dei familiari ma anche dei terreni quale unica fonte del proprio sostentamento vengono quindi richiamati sia nelle decisioni di alcune Commissioni territoriali sia in quelle dei Tribunali di merito per riconoscere la sussistenza del presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 c. 6 D. lgs. 286/98.

Particolarmente significative risultano essere alcune pronunce che, al fine di sostenere il riconoscimento della protezione, richiamano rapporti e convenzioni internazionali.

In questo senso, il Tribunale dell’Aquila, con ordinanza del 18 febbraio 2018, nel motivare la propria decisione, relativa ad un richiedente asilo proveniente dal Bangladesh, fa riferimento alle problematiche legate ai cambiamenti climatici ma anche al land grabbing e alla deforestazione, citando in merito il rapporto “Crisi Ambientali e migrazioni forzate – A Sud Onlus 2016”. Inoltre ricorda che l’Italia ha ratificato con L. n. 881/1997, art. 11, il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e il Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici che prevedono, il primo, che gli Stati aderenti al patto citato riconoscano il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, un alloggio adeguati, nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita; mentre con l’altro gli Stati si impegnano a riconoscere il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adottando individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure adeguate, rilevando che tali principi internazionali trovano riscontro nella Carta Costituzionale artt. 2 e 32.

La valutazione della vulnerabilità connessa ad una situazione geo – politica tale da non offrire garanzie di vita minime anche in ragione di specifiche condizioni ambientali ha poi trovato rilievo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa sempre al riconoscimento della protezione umanitaria.

In particolare, nella sentenza n. 4455/2018, la Corte di Cassazione afferma: “La condizione di vulnerabilità può, tuttavia, avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standard minimi per un’esistenza dignitosa. L’allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità, può, pertanto, non essere derivante soltanto da una situazione d’instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale…ma anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)”.

Questa interessante evoluzione della giurisprudenza, tale da garantire, in presenza di determinate condizioni, il riconoscimento della protezione umanitaria non solo a fronte di vulnerabilità connesse ad eventi naturali a rapida insorgenza (inondazioni, alluvioni etc) ma anche di eventi a lenta insorgenza (desertificazione, siccità, salinizzazzione dei terreni etc.) rischia di avere una battuta di arresto in ragione delle modiche apportate dalla L. 132/2018 all’art. 5 c. 6 D. Lgs. 286/98 e al venir meno della protezione umanitaria.

Tralasciando le questioni relative al regime transitorio e all’applicabilità delle nuove disposizioni alle cause ancora in corso, quali sono o potrebbero essere i margini residui di tutela dei migranti ambientali in base alle disposizioni oggi vigenti nel nostro ordinamento Come noto, il D.l. 113/2018 convertito con L. 132/2018 ha introdotto una nuova tipologia di permesso di soggiorno denominato permesso di soggiorno per calamità.

Secondo quanto disposto dall’art. 20Bis c. 1 D. lgs. 286/98: “Fermo quanto previsto dall’articolo 20, quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamita’ che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza, il questore rilascia un permesso di soggiorno per calamita’”. Il permesso di soggiorno ha durata semestrale, è rinnovabile, consente lo svolgimento di attività lavorativa ma non è convertibile in lavoro.

Ad una prima lettura ed in assenza di casistica specifica, tale disposizione appare essere solo una protezione temporanea contro l’espulsione, idonea ad intervenire nei confronti di cittadini stranieri, già presenti in Italia in una situazione di irregolarità, che, a seguito di situazione di contingente ed eccezionale gravità, si trovano impossibilitati a far rientro nel Paese d’origine in condizioni di sicurezza.

I limiti di questa disposizione appaiono essere piuttosto evidenti laddove appunto si pone come condizione per il rilascio l’eccezionalità della calamità e l’assenza di sicurezza in caso di rientro, risultando così apparentemente irrilevanti gli eventi naturali a rapida insorgenza ma di carattere non eccezionale e quelli a lenta insorgenza non aventi natura contingente e incidenti non tanto sulla sicurezza quanto più sulle condizioni minime di esistenza. Sebbene non si possano escludere sviluppi giurisprudenziali significativi anche con riferimento a tale tipologia di permesso di soggiorno, un’attenzione peculiare andrà riservata alla forme di protezione internazionale presenti nell’ordinamento nazionale ed europeo e soprattutto alla protezione sussidiaria ex art. 14 lett. b) D. lgs. 251/07 al fine di valutare in quali casi il rientro nel Paese d’origine in presenza di determinate condizioni ambientali sia idoneo a configurare il rischio di un danno grave nella forma del trattamento inumano e degradante.

Uno contributo in questo senso può provenire dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relative all’art. 2 (diritto alla vita) e all’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) tra le quali si ritiene particolarmente rilevante la sentenza resa nel caso Sufi e Elmi c. Regno Unito, relativa al caso di due cittadini somali residenti nel Regno Unito e a rischio di espulsione verso la Somalia.

Secondo la Corte EDU: “Se le condizioni umanitarie in Somalia fossero del tutto o in maniera predominante attribuibili alla povertà o alla mancanza di risorse dello Stato per fronteggiare un fenomeno naturale, allora si potrebbe affermare (come in N. c. Regno Unito) che tali condizioni potrebbero essere considerate come violazione dell’art. 3 CEDU solo in casi estremamente eccezionali. Tuttavia, nella valutazione della Corte, le condizioni in Somalia, benché aggravate dalla siccità, sono dovute in maniera predominante alle azioni dirette o indirette delle parti in conflitto e dal rifiuto da parte di al-Shabaab di permettere alle agenzie internazionali di operare nelle aree sotto il suo controllo. In questo caso, la Corte preferisce seguire l’approccio sperimentato in M.S.S. c. Belgio e Grecia, secondo il quale è necessario considerare la possibilità per il ricorrente di soddisfare i propri bisogni primari, la sua vulnerabilità e la prospettiva di un miglioramento della sua situazione in un tempo ragionevole (§ 283). Considerando i rapporti sulla situazione nei campi per sfollati in Somalia e nei campi rifugiati di Dadaab in Kenya e il fatto che tali campi stanno nel frattempo diventando sempre più sovraffollati, la Corte ritiene che (§ 292) ogni persona che dovesse cercare protezione interna in uno di questi campi sarebbe a rischio di un trattamento contrario all’art. 3 CEDU a causa delle terribili condizioni umanitarie”.

La Corte quindi pone l’accento sulle azioni dirette o indirette delle parti in conflitto e sul rifiuto da parte di al-Shabaab di consentire l’intervento delle agenzie internazionali e sulle conseguenze in termini di peggioramento delle condizioni ambientali e di vita.

In presenza di comportamenti attivi o omissivi delle autorità statuali o di agenti non statuali ma in grado di controllare un determinato territorio e del peggioramento delle conseguenze del cambiamento climatico o di un determinato mutamento ambientale per la popolazione presente o per una parte di essa, dovuto a tale comportamento attivo o omissivo, si potrebbe dunque aprire al riconoscimento delle protezione sussidiaria per il rischio di subire un danno grave nella forma del trattamento inumano e degradante.

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