L’ACCORDO DI PARIGI E LE SUCCESSIVE CONFERENZE ONU SUL CLIMA

(Relazione nel convegno “Cambiamenti Climatici e Migrazioni”, tenutosi a a Roma 17/10/2018, organizzato dall’Associazione dei Giuristi Democratici con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma).

di: Alberta Milone, Avvocato, Associazione Nazionale Giuristi Democratici, già consulente del CNR presso il Ministero dell’Ambiente

1. Il cambiamento climatico rientra nell’ambito dei rischi globali che devono essere affrontati nel quadro della cooperazione internazionale.

Prima di affrontare, in forma sintetica, le principali novità introdotte dall’Accordo di Parigi del dicembre 2015 e le più importanti questioni discusse nell’ambito delle successive Conferenze ONU sul tema dei cambiamenti climatici, risulta utile formulare una breve premessa in merito alle più importanti Conferenze e trattati internazionali, che hanno preceduto il menzionato Accordo.

Un primo riferimento alla problematica dei cambiamenti climatici è contenuto nella dichiarazione predisposta nell’ambito della prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma, nel 1972[1], che ha inaugurato un nuovo approccio della comunità internazionale in materia ambientale, finalizzato a prevenire l’inquinamento[2]. Nella dichiarazione elaborata nel corso della Conferenza di Stoccolma, è stata, tra l’altro, affermata la necessità di preservare le risorse naturali a favore delle generazioni presenti e future, “attraverso un’adeguata pianificazione e gestione” (principio n. 2).

Alla prima Conferenza ONU sul clima, tenutasi a Ginevra nel 1979, seguirono altri incontri a livello internazionale e nel 1988 fu istituito il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change)[3], organismo scientifico consultivo, che valuta le informazioni tecniche, scientifiche ed economiche disponibili in tema di cambiamenti climatici, l’impatto sociale ed economico degli stessi, fornendo anche strategie di risposta ai decisori politici.

Nel 1990 si è tenuta a Ginevra la seconda Conferenza Mondiale ONU sul clima, all’esito della quale, nella dichiarazione finale, fu evidenziata la necessità di negoziare un accordo globale sui cambiamenti climatici[4].

Pertanto, nel 1992 fu sottoscritta a Rio de Janeiro la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici[5], con l’obiettivo di “stabilizzare…le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico” (art. 2).

In base all’art. 3 della Convenzione, “le parti devono proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità e in rapporto alle loro comuni ma differenziate responsabilità e alle rispettive capacità. Pertanto i Paesi sviluppati che sono parti della Convenzione devono prendere l’iniziativa nella lotta contro i cambiamenti climatici e i relativi effetti negativi” (comma 1). La Convenzione si ispira al principio di sviluppo sostenibile – richiamato esplicitamente (v. ad es. l’art. 3, commi 3 e 4), e implicitamente con il riferimento al principio di equità intergenerazionale e intragenerazionale[6] – al principio di precauzione, e al principio delle responsabilità comuni, ma differenziate dei Paesi industrializzati e dei Paesi in via di sviluppo. In base a quest’ultimo principio, i Paesi industrializzati, che storicamente hanno prodotto la maggior parte delle emissioni di gas serra, sono tenuti a un impegno maggiore, rispetto ai Paesi in via di sviluppo, nell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici.

Ai sensi dell’art. 7 della Convenzione viene istituita una Conferenza delle Parti (COP), organo supremo della Convenzione, costituito dai Paesi che hanno ratificato la stessa Convenzione. La Conferenza delle Parti verifica regolarmente l’attuazione della Convenzione e “nei limiti del suo mandato assume le decisioni necessarie per promuovere l’effettiva attuazione” della Convenzione stessa.

Di rilevante importanza è la COP 3, che si è tenuta a Kyoto nel 1997. Nell’ambito della COP 3 è stato approvato il protocollo di Kyoto, che prevede obblighi di riduzione di gas serra in capo ai Paesi industrializzati (Stati sviluppati e Paesi in transizione verso un’economia di mercato), elencati nell’allegato I alla Convenzione Quadro.

In base al Protocollo di Kyoto, questi Stati dovevano garantire che dal 2008 al 2012 le emissioni antropiche di sei gas a effetto serra, tra cui: biossido di carbonio, metano, ossido di azoto, fossero complessivamente ridotte del 5% rispetto ai livelli del 1990. Per ogni Stato è stata prevista una determinata percentuale di emissioni. 

Il Protocollo di Kyoto ha, invece, escluso dagli obblighi di riduzione dei gas serra i Paesi in via di sviluppo, tra cui Cina, India o Brasile, che attualmente producono quantità ingenti di combustibili fossili. Proprio a causa della mancata previsione di obblighi a carico dei Paesi in via di sviluppo, gli Stati Uniti non hanno provveduto alla ratifica del Protocollo.

Occorre evidenziare che i Paesi vincolati dal Protocollo di Kyoto rappresentavano solo il 14% delle emissioni globali[7]. Il Protocollo era, pertanto, evidentemente insufficiente allo scopo di contrastare i cambiamenti climatici, tanto da ingenerare una sfiducia nella cooperazione internazionale tra gli Stati, nell’azione di contrasto ai cambiamenti climatici[8].

Nel 2012, a Doha sono stati adottati emendamenti al Protocollo Kyoto, che prevedono obblighi di riduzione di gas serra dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2020. Ad oggi tali emendamenti non sono ancora entrati in vigore.

2. L’accordo di Parigi è stato indicato come “il punto di arrivo”[9] delle negoziazioni iniziate dopo l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto nel 2005, allo scopo di concludere un nuovo trattato da estendere anche ai Paesi esclusi dal Protocollo di Kyoto, quali gli Stati Uniti, la Cina e l’India.

Le basi del nuovo accordo sono state poste a partire della Conferenza delle Parti di Copenaghen del 2009[10].

Nel corso delle negoziazioni nell’ambito della COP 17, tenutasi a Durban, nel 2011, è emersa la disponibilità della Cina a sottoscrivere un nuovo accordo, purché lo stesso non entrasse in vigore prima del 2020. Tale apertura della Cina ha avuto come conseguenza un diverso orientamento degli Stati Uniti, divenuti favorevoli ad assumere obblighi per contrastare il cambiamento climatico[11]

L’Accordo di Parigi è stato adottato dalla COP 21 nel dicembre 2015, successivamente alla pubblicazione del quinto rapporto IPCC del 2014 13, dal quale è emerso, tra l’altro, che dal 1950 sono intervenuti cambiamenti climatici senza precedenti, a causa dell’aumento delle emissioni di gas serra, originate dal comportamento dell’uomo.

L’accordo è stato concluso nel dicembre 2015, nell’ambito della COP 21, con la quasi unanime partecipazione di 195 Stati. Successivamente al processo di ratifica, l’accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016. 

Dalla COP 21 sono stati adottati due documenti: 1) l’Accordo e 2) la decisione della COP. 

Mentre l’Accordo è vincolante[12], la decisione non ha tale natura, e, pertanto, non deve essere sottoposta a ratifica.

Nel preambolo dell’accordo vi è un riferimento alla tutela dei diritti umani[13], che i cambiamenti climatici possono compromettere, quali ad esempio, il diritto alla salute e i diritti dei popoli indigeni, delle comunità locali e dei migranti. 

Con l’Accordo di Parigi viene meno la distinzione netta tra gli obblighi che incombono sui Paesi sviluppati e quelli relativi ai Paesi non sviluppati. Nel Preambolo si fa riferimento, come nella Convenzione Quadro del 1992, al principio di equità, alle responsabilità comuni, ma differenziate, e alle “capacità rispettive, tenuto conto dei contesti nazionali differenti”.

In particolare, l’Accordo intende rafforzare il contrasto ai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e della lotta alla povertà.

L’Accordo, tuttavia, non prevede specifici obblighi per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo stesso (art. 2), ma il raggiungimento degli obiettivi discende dalle azioni che le parti si impegnano ad intraprendere e comunicare. 

Gli obiettivi sono i seguenti

1) contenimento dell’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo prevede anche l’obiettivo ottimale e più ambizioso di 1,5 gradi, “riconoscendo che questo ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico” (art. 2, comma 1, lett. a)).

Entro il 2020, gli Stati devono presentare i piani con i contributi che intendono conseguire (misure nazionali di mitigazione). Tali piani devono essere aggiornati ogni 5 anni a partire dal 2023. Gli impegni delle parti devono avere una progressione nel tempo.

Come dispone l’art. 4 dell’Accordo, i Paesi sviluppati svolgono “un ruolo di guida, prefissando obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni che coprono tutti i settori dell’economia”. I paesi in via di sviluppo migliorano progressivamente gli obiettivi di mitigazione. I contributi delle parti sono iscritti in un pubblico registro tenuto dal segretario dell’Accordo.

2) rafforzamento della capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici16 e “il rafforzamento della resilienza climatica e di uno sviluppo a basse emissioni di gas serra in una modalità che non minacci la produzione di cibo” (art. 2, comma 1, lett. b)).

Anche relativamente agli obiettivi di adattamento, gli Stati, ove opportuno, inviano e aggiornano una comunicazione periodica, relativa alle misure che prevedono di adottare. Tali comunicazioni sono iscritte in un registro pubblico custodito dal segretario.

3) previsione di flussi finanziari in coerenza con uno sviluppo a basse emissioni. In base all’art. 9, comma 1, i Paesi sviluppati sono tenuti a fornire risorse finanziarie ai Paesi in via di sviluppo[14]

L’accordo di Parigi si fonda su una strategia c.d. bottom – up, in quanto sono previsti impegni volontari da parte degli Stati, allo scopo di perseguire gli obiettivi dell’accordo stesso e, conseguentemente, non sono previste sanzioni nel caso in cui gli impegni non vengano rispettati. Ciò, allo scopo di agevolare l’adozione di impegni ambiziosi da parte degli Stati. Diversa è, invece, la strategia c.d. top – down, adottata in sede di conclusione del Protocollo di Kyoto, con il quale sono stati stabiliti gli specifici obblighi di riduzione dei gas serra, che incombevano sugli Stati18.

Gli Stati possono realizzare gli obiettivi di mitigazione e adattamento di cui all’Accordo mediante forme di cooperazione internazionale. In particolare, l’Accordo prevede meccanismi di mercato, ispirati al Protocollo di Kyoto, finalizzati al perseguimento degli obiettivi di mitigazione (v. l’art. 6) 19.

Particolare attenzione viene dedicata dall’Accordo al principio di trasparenza (art. 11).[15] 

Gli Stati sviluppati forniscono, tra l’altro, informazioni in merito ai finanziamenti, ai trasferimenti tecnologici e all’assistenza nei confronti dei Paesi in via di sviluppo (art. 13, comma 9).

L’art. 13 dell’Accordo prevede che gli Stati presentano rapporti biennali relativi ai progressi conseguiti nell’attuazione dei piani di mitigazione e di adattamento.

Il primo bilancio globale in merito all’attuazione dei contributi forniti dalle Parti verrà effettuato a partire dal 2023 e, in seguito, periodicamente ogni cinque anni (art. 14, comma 2).  

L’Ad hoc working group valuta se l’attuazione corrisponde a quanto proposto dagli Stati e se ci sono possibilità di migliorare i piani (art. 15) per facilitare l’esecuzione dell’Accordo e promuovere il rispetto delle sue disposizioni. Il menzionato Gruppo non ha compiti punitivi, indica agli Stati possibili soluzioni da adottare in caso di inadeguatezza dei piani.

3. Nell’ambito della COP 22 tenutasi a Marrakech, sono iniziate le negoziazioni per l’attuazione dell’Accordo di Parigi (“Paris rulebook”), con riferimento, tra l’altro alla previsione delle regole per la predisposizione dei contributi nazionali, e relativamente ai procedimenti per monitorare la conformità nell’attuazione dell’accordo[16]

In seguito, si è tenuta a Bonn la COP 23[17], nel corso della quale sono emerse divergenze relativamente ai finanziamenti, destinati ai Paesi in via di sviluppo. 

La COP 23 si è conclusa nel maggio 2018. Le Parti hanno deciso di dedicare tempo ulteriore alle negoziazioni rinviando il dialogo a Bangkok a settembre dello stesso anno.

Nell’ambito della COP 24, che si è conclusa a Katowice nel mese di dicembre 2018, sono state, tra l’altro, stabilite regole relativamente al conteggio delle emissioni e al monitoraggio delle azioni previste dagli Stati[18].

4. Secondo l’orientamento prevalente della dottrina, il bilancio dell’Accordo di Parigi è senz’altro positivo, essendo un accordo globale, che coinvolge gli Stati sviluppati, ma anche gli Stati in via di sviluppo. A seguito della Convenzione del 1992, infatti, alcuni Paesi, tra cui la Cina e l’India hanno acquisito un importante ruolo nella politica e nell’economia mondiale, tanto da non poter più essere considerati come Paesi emergenti. E’, pertanto, evidente che una efficace azione di contrasto ai cambiamenti climatici non può che coinvolgere anche questi Paesi[19]

Altra parte della dottrina ha ravvisato rilevanti elementi negativi relativamente all’Accordo di Parigi. 

Tra i principali elementi negativi dell’Accordo, questa parte della dottrina[20] individua i seguenti:

  • non c’è nell’Accordo una data certa di cessazione dell’estrazione, del commercio e del trasporto delle energie fossili; ciò rende impossibile una programmazione adeguata dell’utilizzo su larga scala delle energie rinnovabili;
  • i tempi di entrata in vigore delle nuove norme sono troppo lunghi; 
  • non sono stati previsti controlli esterni di competenza di un organo sovranazionale;
  • non sono stati previsti per i gas serra “standard quantitativi e temporali26;
  • nell’Accordo non sono previste sanzioni, mentre sarebbe necessario prevedere che le infrazioni più gravi siano giudicate da un Tribunale internazionale.

In conclusione, occorre sottolineare l’importanza dell’Accordo di Parigi, principalmente in quanto esso è intervenuto all’esito di numerose COP che non hanno avuto esiti positivi, sia per la scarsa solidarietà dei Paesi sviluppati, restii a modificare il proprio modello di sviluppo fondato su produzione e consumo di carbone, gas e petrolio sia per la mancanza di volontà dei Paesi non sviluppati di assumere impegni[21].

Con l’Accordo di Parigi, anche i Paesi che non appartengono all’Allegato I della Convenzione del 1992 hanno assunto obblighi previsti dallo stesso Accordo. E’ stata, così, superata la diversa impostazione del Protocollo di Kyoto, che imponeva obblighi soltanto ai Paesi elencati nel menzionato Allegato 1.

E’ probabilmente troppo presto per poter trarre delle conclusioni in merito all’efficacia dell’Accordo di Parigi, nella lotta contro i cambiamenti climatici. L’aspetto più debole dell’Accordo sembra essere la mancata previsione di obblighi vincolanti in capo agli Stati, essendo rimessa a ciascuno Stato l’individuazione dei propri contributi (approccio bottomup) e la mancata previsione di sanzioni in caso di inosservanza delle disposizioni dell’Accordo. 

Occorrerà attendere alcuni anni, per verificare se tale Accordo è effettivamente idoneo allo scopo di contrastare i cambiamenti climatici.

Alla luce delle conclusioni del nuovo rapporto del Comitato IPCC[22], vi è ancora margine per intervenire. Certo è che allo scopo di risolvere il problema dei cambiamenti climatici sarà necessario cambiare il modello di sviluppo, ora basato sui combustibili fossili. Sono, pertanto, richiesti alla comunità internazionale sforzi molto superiori a quelli già fatti [23].


[1] Il riferimento in questione è presente, in particolare, nel principio n. 6 della dichiarazione: “sprigionamento di calore in quantità o in concentrazioni tali che l’ambiente non sia in grado di neutralizzarne gli effetti”, che, in base allo stesso principio, “devono essere arrestati, in modo da evitare che gli ecosistemi subiscano danni gravi o irreversibili”. Cfr. sul punto: G. SANNA, Cambiamenti climatici ed eventi estremi, in P. DELL’ANNO, E. PICOZZA, Trattato di diritto dell’ambiente, Vol. III Tutele parallele e processuali, 2015, 69; L. MARINO, La tutela del clima e il ruolo delle convenzioni internazionali, in Ordines, n. 1, 2017.

[2] Cfr. S. MARCHISIO, Il diritto internazionale dell’ambiente, in G. CORDINI, P. FOIS, S. MARCHISIO, Diritto ambientale. Profili internazionali europei e comparati, Torino, 2017, 6.

[3] L’IPCC è stato istituito dall’United Nations Environment Program (Unep) e dall’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM).

[4] G. SANNA, op. cit., 72.

[5] V. S. NESPOR, A. L. DE CESARIS, Le lunghe estati calde. Il cambiamento climatico e il protocollo di Kyoto, Bologna, 2003, 49, ss.

[6] Lo sviluppo sostenibile, come definito nel Rapporto Brundtland, Our Common Future, è uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. L’art. 3, comma 1, della Convenzione afferma “Le Parti devono proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità…”. Sul principio di sviluppo sostenibile, tra i tanti contributi sull’argomento, cfr. M. MONTINI, Profili di diritto internazionale, in P. DELL’ANNO, E. PICOZZA, Trattato di diritto dell’ambiente, Principi generali, vol. I, Padova, 2012, 37, ss. L’autore distingue il principio di equità intra-generazionale, in base al quale gli Stati devono considerare anche gli impatti delle proprie politiche economiche sugli altri Stati, “nel medesimo momento storico”, e il principio di equità intergenerazionale, che riguarda i bisogni non solo delle generazioni presenti, ma anche delle generazioni future. L’autore sottolinea, inoltre, che il principio di equità intergenerazionale è connesso al principio delle responsabilità comuni ma differenziate.

[7] S. NESPOR, La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi, in Riv. trim. dir. pubbl., fasc. n. 1, 2016, p. 91.

[8] Cfr. in proposito, T. SCOVAZZI, Il trattato sul clima, in Il Libro dell’Anno del diritto, 2017. L’autore afferma che alcuni, constatato il fallimento del Protocollo di Kyoto, avevano suggerito “il ripiegamento su strategie bilaterali o regionali, cui partecipassero gli Stati legati da interessi comuni”. 

[9] M. MONTINI, Riflessioni critiche sull’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, in Riv. dir. internazionale, fasc. 3, 2017, 719.

[10] In particolare, a Copenaghen, si giunse a un accordo di natura politica, con il consenso di soltanto alcune delle parti partecipanti, con il quale sono stati introdotti alcuni principi poi recepiti nell’Accordo di Parigi.

[11] S. NESPOR, La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi, cit., pag. 16. 13 Quest’ultimo ha, tra l’altro, evidenziato in sintesi: entro metà del secolo almeno la metà dell’energia globale dovrà essere prodotta da fonti a bassa emissione di inquinanti atmosferici; entro la fine del secolo dovranno essere del tutto eliminati i combustibili fossili. In base al rapporto del 2014, solo seguendo gli obiettivi sopra riportati, la temperatura globale potrà essere limitata entro i 2 gradi entro la fine del secolo. Per arrivare all’obiettivo più ambizioso di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, la riduzione delle emissioni dovrà essere tra il 70 e il 95 per cento entro il 2050. Cfr. S. NESPOR, op. cit.

[12] Come è stato sottolineato da parte della dottrina, gran parte delle disposizioni dell’Accordo non danno luogo all’insorgere di obblighi di condotta o di risultato, ma possono essere definiti come “doveri di due diligence”: “il principale esempio in tal senso è rappresentato dall’assenza di obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas serra a carico delle parti, rimpiazzati, nell’impianto dell’Accordo di Parigi, da un sistema di contributi nazionali non vincolanti di mitigazione, stabiliti da ciascuna parte in via del tutto autonoma e volontaria. Il rispetto di tali contributi nazionali … sarà soggetto solamente ad un controllo indiretto, di tipo facilitativo, da parte delle istituzioni previste dal sistema dell’Accordo”, cfr. M. MONTINI, op, cit.

[13] M. MONTINI, op. cit. 16 Ciò comporterà l’esigenza di prendere in considerazione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e in quelli che subiscono maggiormente le conseguenze dei cambiamenti climatici, le problematiche relative, tra l’altro, allo sviluppo economico e produttivo delle aree dove verranno realizzati gli interventi, alla riconversione agricola e alla pianificazione e allo sviluppo di infrastrutture e alla riorganizzazione delle fonti energetiche, cfr. S. NESPOR, op. cit. 

[14] In base al punto n. 115 della decisione, viene stabilito di “migliorare la dotazione di strumenti finanziari, tecnologici e di capacitazione urgenti e adeguati ad opera delle Parti paesi sviluppati, al fine di migliorare il livello di ambizione pre-2020 dell’azione delle Parti, e in tal senso sollecita fortemente le Parti paesi sviluppati ad aumentare il loro livello di sostegno finanziario, con una tabella di marcia concreta per raggiungere l’obiettivo di offrire congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per la mitigazione e l’adattamento, aumentando in modo significativo la dotazione finanziaria per l’adattamento rispetto ai livelli attuali e di fornire ulteriori e appropriate tecnologie e sostenere il  rafforzamento della capacitazione”. 18 Cfr. S. NESPOR, op. cit; M. MONTINI, op. cit. 19. L’art. 6, par. 2 dell’Accordo prevede un meccanismo che potrà essere adottato volontariamente dagli Stati e si fonda sul trasferimento internazionale di unità di mitigazione (v. art. 6, par. 2 dell’Accordo). Vi è, inoltre, il meccanismo previsto dall’art. 6, par. 4 dell’Accordo, per promuovere lo sviluppo sostenibile (sustainabile development mechanism SDM) e ha la finalità di “contribuire alla riduzione dei livelli di emissione nel Paese ospitante, il quale trae beneficio dalle attività di mitigazione risultanti in riduzioni di emissione che possono essere usate da un’altra Parte per ottemperare al proprio contributo determinato a livello nazionale”. Cfr. M. MONTINI, op. cit. Sui meccanismi di mercato, cfr., inoltre, S. NESPOR, op. cit. e, in generale, sugli strumenti volontari volti a favorire l’implementazione dei piani nazionali contenenti le misure di mitigazione, attraverso la cooperazione tra le parti, cfr. F. SCALIA, L’Accordo di Parigi e i “paradossi” delle politiche dell’Europa su clima ed energia”, in Dir. e giurisp. agraria alimentare e dell’ambiente, n. 6, 2016, 7.

[15] Come è stato rilevato in dottrina, “un trattato basato su impegni volontari deve essere attuato in un contesto di fiducia reciproca e di chiarezza su quanto le parti comunicano di voler fare”, cfr. T. SCOVAZZI, Il trattato sul clima, in Il libro dell’anno del diritto, 2017.

[16] Cfr. L. ARISTEI, L’Accordo di Parigi: obiettivi e disciplina, in Riv. quadrim. dir. amb., 2017, n. 3, 2, ss.

[17] Sulla COP 23, cfr. G. MASTROJENI, COP 23: il treno del clima si è fermato ?, in www.rivistamicron, 2017, n. 38; l’autore evidenzia l’importanza della COP 23, nell’ambito della quale “accanto a una “coalizione” per superare il carbone come fonte energetica – pur sempre necessaria e a cui l’Italia ha aderito – si è imposto … all’attenzione, fra gli altri, il ruolo dell’agricoltura, dei popoli indigeni, o quello delle donne”. In argomento, cfr., inoltre, D. VIOLETTI, A Bonn passi avanti per attuare l’accordo di Parigi, in Ecoscienza, 2017, n. 6.

[18] Cfr.    A.           PASINI,                I              risultati di            Katowice,              tra          “pienisti”             e              “vuotisti”,                 in            http://pasinilescienze.blogautore.espresso.repubblica.it.

[19] S. NESPOR, op. cit.; secondo l’autore, essendosi “disgregata la dicotomia Paesi ricchi\Paesi poveri, creando una pluralità di gruppi di stati con interessi non coincidenti e spesso contrapposti … il solo fatto che un accordo sia stato raggiunto rappresenta un successo”. L’autore individua, inoltre, un altro aspetto positivo, da individuare nella circostanza che il piccolo gruppo di Stati da individuare come i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici “non si è sottratto al dovere di tenere conto delle esigenze e delle difficoltà in cui versano la maggioranza degli Stati”. Cfr., inoltre, F. SCALIA, op. cit., secondo cui l’Accordo di Parigi risulta di fondamentale importanza, pur se il processo per la sua attuazione non è agevole. Nello stesso senso, v. M. MONTINI, op. cit.

[20] A. POSTIGLIONE, Accordo di Parigi sul clima del 2015, in www.lexambiente.it; J. MORAND – DEVILLER, L’Accord de Paris et l’irresistible principe de solidarieté, in http://piemonteautonomie.cr.piemonte.it. 26 A. POSTIGLIONE, op. cit.

[21] Cfr. A. POSTIGLIONE, op. cit.

[22] Cfr. in proposito, la relazione di C. CAGNAZZO, Cambiamenti Climatici, perché dobbiamo contenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C (rispetto all’era preindustriale).

[23] In generale, v. l’Enciclica di Papa Francesco, Laudato Sì, Bologna, 2015, pag. 147, ss., dove si legge che il cambiamento del modello di sviluppo globale implica “riflettere responsabilmente sul senso dell’economia e della sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni”. Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi progresso”.

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