Corte Costituzionale. Trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi – Calcolo basato sulla media dei redditi relativi agli ultimi dieci anni coperti da contribuzione – Omessa esclusione, dal computo, dei periodi successivi al conseguimento dell’anzianità minima con contribuzione meno favorevole o dannosa

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e dell’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote di trattamento pensionistico, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, non prevedono l’esclusione dal computo della contribuzione successiva ove comporti un trattamento pensionistico meno favorevole.

Sentenza 173/2018 (ECLI:IT:COST:2018:173)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI – Redattore: PROSPERETTI
Udienza Pubblica del 03/07/2018; Decisione del 04/07/2018
Deposito del 23/07/2018; Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 5, c. 1°, della legge 02/08/1990, n. 233 e art. 1, c. 18°, della legge 08/08/1995, n. 335.
Massime:
Atti decisi: ord. 184/2017

SENTENZA N. 173

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e dell’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e L. T., con ordinanza del 13 luglio 2017, iscritta al n. 184 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 3 luglio 2018 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;

uditi l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 luglio 2017, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 35, primo comma, e 38, primo e secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi) e dell’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui non prevedono che, nel caso di esercizio da parte del lavoratore di attività autonoma, successivamente al momento in cui egli abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata al raggiungimento dell’età pensionabile calcolata con i contributi minimi già versati, escludendo quindi dal computo, ad ogni effetto, i periodi successivi e la relativa contribuzione meno favorevole e perfino “dannosa”.

1.1.– In particolare, l’art. 5, comma 1, legge n. 233 del 1990 prevede: «La misura dei trattamenti pensionistici da liquidare, con effetto dal 1° luglio 1990, in favore degli iscritti alle gestioni di cui all’articolo 1 è pari, per ogni anno di iscrizione e contribuzione alle rispettive gestioni, al 2 per cento del reddito annuo d’impresa determinato, per ciascun soggetto assicurato, ai sensi dell’articolo 1, quale risulta dalla media dei redditi relativi agli ultimi dieci anni coperti da contribuzione o al minor numero di essi, anteriori alla decorrenza della pensione».

1.2.– A sua volta, l’art. 1, comma 18, legge n. 335 del 1995 stabilisce: «Per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS che al 31 dicembre 1992 abbiano avuto un’anzianità contributiva pari o superiore ai 15 anni, gli incrementi di cui al comma 17 ai fini della determinazione della base pensionabile trovano applicazione nella stessa misura e con la medesima decorrenza e modalità di computo ivi previste, entro il limite delle ultime 780 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione».

2.– Espone il rimettente che, con ricorso depositato il 4 settembre 2013, L. T. si era rivolto al Tribunale di Pordenone per chiedere la rideterminazione da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) del proprio trattamento pensionistico, con esclusione dal computo della contribuzione versata dopo il 31 dicembre 2007. Ciò in applicazione del principio più volte affermato dalla Corte costituzionale secondo il quale «dopo il perfezionamento del requisito minimo contributivo, l’ulteriore contribuzione (obbligatoria, volontaria o figurativa), mentre vale ad incrementare il livello di pensione già consolidato, non deve comunque compromettere la misura della prestazione potenzialmente maturata sino a quel momento: effetto, quest’ultimo, che sarebbe, infatti, palesemente contrastante con gli artt. 3 e 38 della Costituzione».

Il ricorrente aveva rappresentato di essere titolare di pensione di vecchiaia avente decorso dal 1° luglio 2010 (avendo utilizzato la “finestra” del l° luglio dell’anno successivo al compimento del cinquantanovesimo anno di età), ottenuta con il cumulo della contribuzione versata, prima come lavoratore dipendente (numero 112 settimane) e, poi, come lavoratore autonomo-commerciante (numero 1842 settimane dal 1° ottobre 1975 al 30 giugno 2010), il tutto per una retribuzione pensionabile di euro 1.275,89 mensili. Tuttavia, deduceva che già alla data del 31 dicembre 2007, in forza della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), aveva maturato il requisito contributivo minimo (numero 1824 settimane) e che, in base ai calcoli effettuati dal patronato associazioni cristiane lavoratori italiani (ACLI), non contestati dall’Istituto previdenziale, qualora avesse richiesto la liquidazione della pensione di vecchiaia contestualmente al raggiungimento del requisito minimo contributivo, utilizzando pertanto solo i contributi versati sino ad allora, egli avrebbe percepito un trattamento pensionistico più favorevole (euro 1.618,40 mensili), rispetto a quello che gli era stato corrisposto dal 1° luglio 2010.

La domanda era stata confutata dall’Istituto anche in sede giudiziale, sulla base di una lettura “rigorosa” dell’art. 5, comma l, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. l, comma 18, della legge n. 335 del 1995, e della ulteriore considerazione che non vi è «alcuna norma che consenta l’invocata sterilizzazione dei periodi contributivi nei quali l’odierno ricorrente ha prodotto un reddito di impresa meno elevato».

2.1.– Riferisce la Corte d’appello che, con sentenza n. 24 del 2015, il Tribunale di Pordenone aveva accolto la domanda di L. T., assumendo a sostegno «una lettura costituzionalmente orientata favorevole al ricorrente delle norme in esame».

Ad avviso del giudice di primo grado, la Corte costituzionale ha fissato un principio, cosiddetto della “sterilizzazione” dei contributi dannosi, fondando il proprio decisum sulla consapevolezza che sarebbe irrazionale e contrario alla Costituzione che un numero di contributi superiore al minimo occorrente a far sorgere il diritto alla pensione, possa dare origine ad una prestazione di misura inferiore a quella ricollegabile al minimo già conseguito. Secondo il Tribunale di Pordenone, «il vizio di costituzionalità deriva dall’effetto paradossale che contributi ulteriori possano ridurre, invece di aumentare, il trattamento pensionistico».

2.2.– La decisione di primo grado era stata impugnata dall’ente previdenziale. L’INPS, in particolare, aveva dedotto l’impossibilità di trarre da specifiche ipotesi rispetto alle quali si era pronunciata la Corte un principio di carattere generale, evidenziando, altresì, la diversità del sistema pensionistico del lavoro autonomo rispetto a quello dei lavoratori subordinati.

Nel giudizio di appello si era quindi costituito L. T., chiedendo il rigetto del gravame.

3.– Il giudice a quo, ravvisata la presenza delle condizioni per sottoporre al vaglio costituzionale le disposizioni censurate ha, quindi, emanato l’ordinanza di rimessione.

3.1.– In punto di rilevanza, il rimettente deduce che la questione «si presenta all’evidenza concreta e attuale». Ciò in quanto – «in ipotesi di stretta e puntuale applicazione delle norme impugnate – l’art. 5 l. 233/90 […] impone di calcolare la pensione sulla media del reddito percepito negli ultimi dieci anni di attività e quindi», nel caso di L. T., «tenendo conto dei redditi relativi agli anni dal 2000 al 2010 (I° semestre). Media che risulta significativamente più bassa, di quella che si ottiene prendendo come riferimento i redditi prodotti negli anni 1998/2007», ovvero il decennio antecedente alla data in cui l’interessato aveva conseguito il requisito minimo contributivo.

3.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente deduce che nella gestione assicurazione generale obbligatoria «è oggi vigente, senza dubbio alcuno, il principio della “sterilizzazione” dei contributi dannosi maturati successivamente al raggiungimento del requisito minimo contributivo». Nella sentenza appellata, il Tribunale di Pordenone avrebbe dunque applicato, richiamandosi all’art. 3 Cost., anche al lavoratore autonomo il suddetto principio della “sterilizzazione”, elaborato dalla Corte costituzionale in riferimento esplicito al lavoratore subordinato e normativamente all’art. 3, comma 8, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica). Senonché, ad avviso del giudice rimettente, tale soluzione «si presta tuttavia, come del resto puntualmente rilevato dall’INPS nell’atto di appello, ad una severa critica».

Il giudice a quo rappresenta che la norma dichiarata incostituzionale nella sentenza richiamata è altra (art. 3, comma 8, della legge n. 297 del 1982), rispetto a quella impugnata che disciplina il caso concreto sottoposto a giudizio (art. 5 della legge n. 233 del 1990 e art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995).

In proposito, il rimettente evidenzia che nella sentenza n. 264 del 1994 la Corte costituzionale ha affermato che «è palesemente contrario al principio di razionalità di cui all’art. 3 Cost. – “che implica l’esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” (sentenza n. 421 del 1991) – che all’inserimento di un periodo di contribuzione obbligatoria nella base di calcolo della pensione consegua, in un sistema che prende in considerazione per la determinazione della retribuzione pensionabile solo l’ultimo periodo lavorativo (in quanto si presume più favorevole per il lavoratore), l’effetto di ridurre il trattamento pensionistico di vecchiaia rispetto a quello già ottenibile ove, nel medesimo periodo, non vi fosse stata contribuzione alcuna ed il periodo stesso non fosse stato quindi computabile a nessun effetto (neppure, quindi, ai fini della determinazione dell’anzianità contributiva)».

Secondo il giudice a quo, il richiamo così operato dalla Corte costituzionale al “sistema” che prende in considerazione per il calcolo della retribuzione pensionabile «solo l’ultimo periodo lavorativo (in quanto si presume più favorevole per il lavoratore)», si riferisce al sistema pensionistico del lavoro dipendente, che è differente e diverso «da quello utilizzabile per il calcolo della pensione nel lavoro autonomo, in cui il periodo preso in considerazione è quello relativo agli ultimi dieci anni di attività e ove di certo, non si può “presumere” […], che gli ultimi anni di attività siano più favorevoli per il lavoratore».

3.3.– In definitiva, ritiene il rimettente che l’interpretazione costituzionalmente orientata adottata nella sentenza di primo grado risulterebbe «inammissibile se si presta attenzione ai casi e ai principi richiamati dalla Corte Costituzionale nelle sentenze con cui è stato elaborato e fissato il principio della “sterilizzazione” dei contributi dannosi».

Tuttavia, afferma il giudice a quo che «è pur vero che il richiamato principio appare corretto e aderente al dettato costituzionale laddove evita una palese e irragionevole differenza di trattamento, valido certamente nel sistema di lavoro subordinato, ma altrettanto necessario ed urgente anche nel sistema del lavoro autonomo».

3.4.– Riguardo alla dedotta violazione dell’art. 35, primo comma, Cost., il rimettente afferma che «la su riferita diversità di trattamento, come oggi delineata sulla base di una stretta applicazione della norma impugnata, tra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo, risulta difficilmente giustificabile essendo evidente che ogni prestazione di lavoro merita considerazione uguale pure sul versante contributivo», come nel caso in esame.

In proposito, il Giudice d’appello afferma che «la tutela del lavoro in tutte le sue forme impone che l’assegno pensionistico non venga falcidiato in caso di lavoratore autonomo e comunque, la tutela di rango costituzionale sopra richiamata, mira anche a rendere appetibile ogni forma (autonoma o meno) di lavoro, sicché una legislazione che penalizza la futura pensione rende meno interessante e dunque tutela di meno il lavoro non subordinato».

3.5.– Infine, relativamente al parametro dell’art. 38, primo e secondo comma, Cost., il giudice rimettente sostiene che «la differenziazione posta in risalto e il depauperamento che ne deriva, incidendo sulla proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità del lavoro prestato, contrasta palesemente con il canone della adeguatezza richiamato dalla norma che fa intendere come non si possano trattare in modo diverso, ai fini previdenziali, situazioni consimili».

Il giudice a quo ritiene che, contrariamente a quanto asserito dall’Istituto previdenziale nel ricorso in appello, l’applicazione del principio di sterilizzazione dei contributi dannosi «non tocca, né mette in discussione il sistema previdenziale del lavoro autonomo e nello specifico quello delineato dall’art. 5 l. 233/90, laddove si prevede che la contribuzione sia proporzionale di anno in anno al reddito prodotto con una stretta interdipendenza dunque tra reddito imponibile in un determinato anno e reddito utile alla pensione per lo stesso anno, ma al contrario evita effetti che si appaleserebbero come irragionevoli siccome non rispondenti all’esigenza di conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia e di equità connaturati al principio sancito dall’art. 3 della Costituzione, oltre ad essere in contrasto con le garanzie poste dal successivo art. 38».

4.– L’INPS si è costituito nel giudizio incidentale con atto depositato il 16 gennaio 2018, chiedendo di dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità in oggetto.

L’Istituto rileva che la Corte d’appello ha correttamente osservato che «il principio della neutralizzazione dei contributi per così dire dannosi non ha fin qui trovato applicazione per i lavoratori autonomi», mentre sono numerose le decisioni adottate dalla Corte costituzionale in relazione all’art. 3 della legge n. 297 del 1982. In particolare, l’INPS ricorda la sentenza n. 822 del 1988, che ha fatto salvi i previgenti criteri dettati dall’art. 26, terzo comma, della legge 3 giugno 1975 n. 160 (Norme per il miglioramento dei trattamenti pensionistici e per il collegamento alla dinamica salariale) per i lavoratori prossimi alla pensione al momento dell’entrata in vigore della novella del 1982 o già pensionati; la sentenza n. 307 del 1989, che fa riferimento ai contributi volontari versati dopo il conseguimento dell’anzianità assicurativa e contributiva utile al perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia; la sentenza n. 428 del 1992, che fa riferimento ai contributi volontari versati dopo il conseguimento dell’anzianità assicurativa e contributiva utile al perfezionamento del diritto alla pensione di anzianità; la sentenza n. 264 del 1994, che fa riferimento ai contributi obbligatori per attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio; la sentenza n. 388 del 1995, che fa riferimento alla contribuzione figurativa.

Inoltre, l’INPS ricorda la sentenza n. 433 del 1999 riferita agli agenti di commercio, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 37 della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (Natura e compiti dell’Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio e riordinamento del trattamento pensionistico integrativo a favore degli agenti e dei rappresentanti di commercio).

4.1– Ciò premesso, l’Istituto deduce che «le posizioni del lavoratore subordinato e del lavoratore autonomo in relazione alla disciplina che regola il trattamento previdenziale loro riservato sono del tutto incomparabili», evidenziando i molteplici punti di diversità delle rispettive discipline in riferimento all’obbligo contributivo, alla misura dei contributi, al sistema di calcolo delle pensioni, alle cosiddette finestre mobili di cui all’art. 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122 (in quanto il differimento nella decorrenza della prestazione è di dodici mesi dalla maturazione del diritto per i lavoratori dipendenti e di diciotto mesi per i lavoratori autonomi), al principio dell’automaticità delle prestazioni, vigente solo per i lavoratori subordinati.

Ad avviso dell’INPS, tale situazione non muterebbe in riferimento agli agenti di commercio, data la specificità della loro configurazione giuridica che indurrebbe a inquadrarli nell’ambito della cosiddetta parasubordinazione.

Sulla scorta di tali argomentazioni, l’Istituto sostiene che la posizione dei lavoratori autonomi da una parte e quella dei lavoratori subordinati e degli stessi agenti di commercio sono «totalmente differenti sotto il profilo della tutela previdenziale e dunque appare plausibile e non in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, una diversa disciplina in punto neutralizzazione dei contributi dannosi».

Da ultimo, l’INPS richiama «la tendenza della legislazione in materia previdenziale, particolarmente avvertita negli anni più recenti, sia nel senso di contemperare i diritti degli assicurati alle esigenze di tenuta del sistema previdenziale e di equilibrio del bilancio», ed evidenzia che ciò comporti che «l’obiettivo non è più quello di assicurare al pensionato il trattamento migliore possibile, ma quello che deriva dal computo complessivo dei contributi maturati nel corso della vita lavorativa».

In tale ottica, secondo l’Istituto, «può ritenersi plausibile una differente disciplina tra lavoratori subordinati ed autonomi in punto neutralizzazione dei contributi c.d. dannosi, potendosi far rientrare le variazioni di reddito nel tempo per i secondi nell’ambito del rischio di impresa che caratterizza l’attività imprenditoriale». Ciò, ad avviso dell’INPS, non si porrebbe in contrasto con gli artt. 35 e 38 Cost., in quanto «non incide in alcun modo sulla tutela del lavoro e sull’adeguatezza del trattamento pensionistico, costituendo invece la risultante del bilanciamento tra i contrapposti interessi degli assicurati e della tenuta del sistema previdenziale».

5.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 16 gennaio 2018, chiedendo di dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Anche la difesa dello Stato ha dedotto la impossibilità di applicare al lavoro autonomo il principio della sterilizzazione contributiva, affermato dalla giurisprudenza costituzionale nel lavoro subordinato, attesa, da un lato, la diversità dei due regimi contributivi, dall’altro, la sua non coerenza «con l’impostazione del sistema previdenziale del lavoro autonomo, così come è stato delineato dall’art. 5 della L. 233/1990, attesa la natura di tale tipologia lavorativa e il reddito di impresa derivante».

6.– In prossimità dell’udienza, l’INPS ha depositato una memoria nella quale ha confermato le conclusioni già rassegnate. In particolare, l’Istituto ha ribadito la diversità delle situazioni del lavoratore subordinato e del lavoratore autonomo, con particolare riguardo al rischio di impresa che sul secondo grava e che esso assume volontariamente scegliendo di proseguire l’attività lavorativa dopo aver conseguito i requisiti pensionistici, fermo restando l’opzione di continuare l’attività ottenendo un supplemento di pensione che assume carattere integrativo di quella già in godimento.

In definitiva, l’INPS evidenzia che l’elemento della volontarietà del lavoratore autonomo nel determinare il corrispettivo economico della propria attività e, conseguentemente, l’apporto contributivo in funzione della misura della futura pensione, può giustificare la diversità con il lavoratore subordinato in ordine all’applicazione del principio della cosiddetta “neutralizzazione”.

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Trieste, con ordinanza del 13 luglio 2017 (r.o. n. 184 del 2017), solleva, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 35, primo comma, e 38, primo e secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e dell’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui non prevedono che al lavoratore autonomo che, dopo aver conseguito il requisito per il trattamento pensionistico, abbia continuato la propria attività, versando la relativa contribuzione, non possa essere liquidata una pensione di importo inferiore a quello determinabile alla data del raggiungimento dell’età pensionabile, con esclusione quindi dal computo dei successivi periodi di contribuzione, ove producano effetti riduttivi dell’importo già maturato a tale data.

1.1.– Le questioni concernono la determinazione del trattamento pensionistico di un lavoratore che ha conseguito la pensione di vecchiaia dal 1° luglio 2010, ottenuta con il cumulo della contribuzione versata prima come lavoratore dipendente e poi come lavoratore autonomo-commerciante, iscritto alla relativa gestione speciale dell’assicurazione generale obbligatoria (dal 1° ottobre 1975 al 30 giugno 2010).

L’interessato, pur avendo maturato il requisito contributivo minimo per accedere al trattamento pensionistico già alla data del 31 dicembre 2007, in forza della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), aveva proseguito l’attività lavorativa. Tuttavia, a seguito della riduzione del reddito prodotto in tale periodo di prosecuzione dell’attività, l’importo pensionistico determinato dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), in quanto calcolato in base alle disposizioni censurate con riferimento alle ultime annualità di reddito prodotto antecedenti al pensionamento, era risultato inferiore a quello determinabile in riferimento alla data di maturazione del requisito pensionistico. Pertanto, l’interessato aveva richiesto all’ente previdenziale di rideterminare il trattamento liquidatogli, escludendo dal computo la contribuzione successiva al 31 dicembre 2007, data in cui aveva maturato il requisito minimo contributivo. Ciò in applicazione del principio cosiddetto della «sterilizzazione» (recte: “neutralizzazione”), più volte affermato da questa Corte, secondo cui la contribuzione acquisita successivamente al perfezionamento del requisito per l’accesso alla pensione, ove comporti la riduzione dell’importo della prestazione calcolabile a tale data, deve essere “neutralizzata” ai fini del calcolo della pensione.

1.2.– Avverso il rigetto da parte dell’INPS della domanda, l’interessato aveva presentato ricorso al Tribunale di Pordenone per chiedere la rideterminazione del proprio trattamento pensionistico, con esclusione dal computo della contribuzione versata dopo il 31 dicembre 2007.

Il Tribunale adito aveva accolto la domanda, in base a una lettura costituzionalmente orientata favorevole al ricorrente delle disposizioni di cui all’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 e dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995, ritenendo applicabile il principio della “neutralizzazione” anche al regime pensionistico dei lavoratori autonomi iscritti alla gestione speciale INPS.

1.3.– La decisione del Tribunale di Pordenone è stata impugnata dall’INPS, che ha ribadito l’impossibilità di trarre da specifiche ipotesi rispetto alle quali si era pronunciata questa Corte un principio di carattere generale, evidenziando, altresì, a tal fine, la diversità del sistema pensionistico dei lavoratori subordinati da quello dei lavoratori autonomi.

1.4.– La Corte d’appello di Trieste, ritenendo di non poter aderire all’interpretazione costituzionalmente orientata adottata dal giudice di primo grado, solleva, dunque, la questione di legittimità costituzionale in esame.

Il giudice rimettente afferma che le disposizioni censurate violano l’art. 3 Cost., comportando una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento con i lavoratori subordinati nella parte in cui non prevedono l’applicazione anche ai lavoratori autonomi del principio di “neutralizzazione” dei contributi “dannosi”.

Inoltre, la Corte d’appello ritiene che le disposizioni censurate violino l’art. 35, primo comma, Cost., che tutela il lavoro in ogni sua forma e applicazione, in quanto la diversità di trattamento pensionistico rispetto a quello del lavoro subordinato incide negativamente sulla tutela del lavoro autonomo.

Infine, il collegio rimettente deduce la violazione anche dell’art. 38, primo e secondo comma, Cost., assumendo che il diverso trattamento comporta una riduzione della pensione del lavoratore autonomo, in quanto incide sul principio di proporzionalità tra prestazione e qualità e quantità del lavoro espletato.

1.5.– L’INPS ha chiesto di dichiarare la questione manifestamente infondata, assumendo che il principio della “neutralizzazione” non può trovare applicazione nei confronti delle prestazioni pensionistiche dei lavoratori autonomi in considerazione della diversità del loro regime previdenziale rispetto a quello dei lavoratori subordinati.

1.6.– A sua volta, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma l’impossibilità di applicare al lavoro autonomo il principio di “neutralizzazione”, per ragioni analoghe a quelle rappresentate dall’INPS.

2.– Preliminarmente, con riferimento ai profili concernenti l’ammissibilità della questione, questa Corte rileva che risultano incontestati i dati fattuali della vicenda oggetto del giudizio principale, così come la circostanza che l’entità dei diversi apporti del rateo pensionistico, conseguenti al differente computo del periodo di riferimento dei redditi annui prodotti dall’interessato, derivi dall’applicazione o meno alle norme censurate del principio di “neutralizzazione”, che nella giurisprudenza di questa Corte è stato riferito al solo lavoro subordinato e parasubordinato.

Quanto alle argomentazioni svolte dalla Corte rimettente a sostegno della rilevanza e della non manifesta infondatezza, esse risultano congrue. In particolare, il giudice a quo ha adeguatamente motivato le ragioni critiche che lo inducono a non ritenere percorribile la interpretazione «costituzionalmente orientata» delle disposizioni censurate adottata invece dal giudice di primo grado.

3.– Nel merito, la questione è fondata in riferimento all’evocato parametro costituito dall’art. 3 Cost.

4.– Le disposizioni oggetto della questione di legittimità costituzionale concernono il sistema di calcolo del trattamento pensionistico dei lavoratori autonomi iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, gestione speciale dei commercianti.

L’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 prevede: «La misura dei trattamenti pensionistici da liquidare, con effetto dal 1° luglio 1990, in favore degli iscritti alle gestioni di cui all’articolo 1 è pari, per ogni anno di iscrizione e contribuzione alle rispettive gestioni, al 2 per cento del reddito annuo d’impresa determinato, per ciascun soggetto assicurato, ai sensi dell’articolo 1, quale risulta dalla media dei redditi relativi agli ultimi dieci anni coperti da contribuzione o al minor numero di essi, anteriori alla decorrenza della pensione».

L’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995 stabilisce: «Per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS che al 31 dicembre 1992 abbiano avuto un’anzianità contributiva pari o superiore ai 15 anni, gli incrementi di cui al comma 17 ai fini della determinazione della base pensionabile trovano applicazione nella stessa misura e con la medesima decorrenza e modalità di computo ivi previste, entro il limite delle ultime 780 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione». A sua volta, il citato comma 17, del medesimo art. 1, della legge n. 335 del 1995, prevede il meccanismo di incremento delle settimane di riferimento del reddito pensionabile.

Le predette disposizioni vanno lette alla luce della disciplina recata dall’art. 13 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), secondo cui «Per i lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, e per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali amministrative dall’INPS, l’importo della pensione è determinato dalla somma: a) della quota di pensione corrispondente all’importo relativo alle anzianità contributive acquisite anteriormente al 1°gennaio 1993, calcolato con riferimento alla data di decorrenza della pensione secondo la normativa vigente precedentemente alla data anzidetta che a tal fine resta confermata in via transitoria, anche per quanto concerne il periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile; b) della quota di pensione corrispondente all’importo del trattamento pensionistico relativo alle anzianità contributive acquisite a decorrere dal 1° gennaio 1993, calcolato secondo le norme di cui al presente decreto».

Conseguentemente, il trattamento pensionistico del lavoratore autonomo cui trovano applicazione le predette disposizioni, come nel caso di specie, è composto: per ciascun anno di iscrizione fino al 31 dicembre 1992, dal due per cento del reddito annuo di impresa, quale risultante dalla media dei redditi rivalutati relativi agli ultimi dieci anni (ovvero 520 settimane) anteriori alla decorrenza della pensione, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 233 del 1990 (cosiddetta quota A); per gli anni di iscrizione successivi al 1992, dal due per cento del reddito annuo di impresa, risultante dalla media dei redditi rivalutati relativi agli ultimi quindici anni (ovvero alle ultime 780 settimane) di contribuzione, anteriori alla decorrenza della pensione, ai sensi dell’art. 1, comma 18, della legge n. 335 del 1995 (cosiddetta quota B).

Occorre evidenziare che le disposizioni scrutinate si applicano ai trattamenti pensionistici determinati integralmente (come nel caso in esame), o parzialmente, secondo il sistema retributivo (nel caso del lavoro autonomo, più propriamente definibile reddituale), che fa appunto riferimento alla entità delle retribuzioni (redditi) dell’interessato nell’ultimo periodo della vita lavorativa.

Risulta, dunque, evidente il rilievo che assumono, ai fini della determinazione del quantum della pensione, il periodo reddituale cui fare riferimento per il computo delle due quote di trattamento pensionistico previsto dalle disposizioni scrutinate e il momento da cui si calcolano “a ritroso” i rispettivi periodi.

5.– In tale quadro normativo si colloca il thema decidendum dell’odierna questione, costituito dall’applicabilità di un principio analogo a quello della “neutralizzazione” al diverso regime pensionistico dei lavoratori autonomi iscritti alla apposita gestione speciale dell’INPS.

5.1.– Il principio in esame configura la regula iuris secondo cui la contribuzione acquisita nella fase successiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo non può tradursi nel detrimento della misura della prestazione pensionistica già virtualmente maturata, e comporta, conseguentemente, che i periodi contributivi che abbiano comportato una minore contribuzione vanno esclusi ai fini del calcolo della pensione (ex plurimis, sentenze n. 388 del 1995, n. 264 del 1994, n. 428 del 1992, n. 307 del 1989 e n. 822 del 1988). Da qui la definizione del principio anche in termini di immodificabilità in peius dell’importo della prestazione determinabile alla data del conseguimento del requisito per l’accesso al trattamento pensionistico.

Di recente la sentenza n. 82 del 2017, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), ha riassunto organicamente le motivazioni a fondamento del principio in esame, ed esposto sinteticamente sia la coincidente giurisprudenza di legittimità, sia la parallela evoluzione normativa volta a valorizzare il meccanismo della “neutralizzazione”, che nel caso in esame possono essere richiamati, pur nella diversa ratio, quanto al fine dell’esclusione dei contributi dannosi dal calcolo della pensione.

5.2.– Come rilevato dal giudice rimettente, le predette decisioni attengono a profili della disciplina previdenziale-pensionistica relativi al rapporto di lavoro subordinato: da qui la richiesta della Corte d’appello di sottoporre a vaglio di legittimità la questione della applicabilità al regime previdenziale dei lavoratori autonomi iscritti all’INPS del principio di “neutralizzazione”.

Peraltro, la sentenza n. 433 del 1999, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 37 della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (Natura e compiti dell’Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio e riordinamento del trattamento pensionistico integrativo a favore degli agenti e dei rappresentanti di commercio), ha già fatto applicazione del predetto principio anche al regime pensionistico degli agenti di commercio, che non sono lavoratori subordinati.

6.– Alla luce di quanto così esposto, sussistendo nella concreta fattispecie in esame tutte le condizioni in presenza delle quali potrebbe trovare applicazione il principio della esclusione dei contributi dannosi, occorre valutare se la non applicazione del principio alla scrutinata disciplina pensionistica del lavoro autonomo sia da considerare ex se irragionevole, e già in quanto tale comportante una ingiustificata diversità di trattamento con i lavoratori subordinati.

6.1.– In un quadro normativo caratterizzato dalla esistenza di diversificati regimi previdenziali, questa Corte ha affermato che, pur in considerazione di un processo di convergenza dei rispettivi sistemi, la persistenza di «elementi di motivata diversità» (sentenza n. 148 del 2017) giustifica differenti regolazioni di aspetti e punti specifici.

Riguardo alla problematica in esame, la più rilevante differenza è oggettivamente costituita dalla struttura della contribuzione, correlata alle caratteristiche delle due tipologie di attività lavorativa: nel lavoro subordinato l’obbligo contributivo, col connesso versamento all’ente previdenziale, è riferito alla retribuzione, ed è distribuito tra datore di lavoro e lavoratore, con la conseguente applicazione del principio dell’automatismo di cui all’art. 2116 del codice civile, che tutela il lavoratore subordinato in caso di mancato versamento dei contributi da parte dell’obbligato; nel lavoro autonomo la contribuzione, correlata al reddito di impresa, è esclusivamente a carico del lavoratore interessato.

Ulteriori, e conseguenti, diversità fra i due sistemi in esame sono quelle, evidenziate in particolare dall’INPS, costituite dalla presenza nel regime previdenziale del lavoro autonomo della “autodichiarazione” del reddito da parte dello stesso lavoratore, e dalla stessa discrezionalità del lavoratore autonomo di autodeterminarsi ai fini degli obblighi contributivi e dell’accesso alla prestazione pensionistica, configurandosi un rapporto diretto tra assicurato ed ente previdenziale.

6.2.– Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri, questa Corte ritiene che tali diversificati aspetti delle due discipline pensionistiche non ostano all’applicazione del principio della esclusione dei contributi dannosi anche alle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi iscritti all’INPS, in considerazione della stessa valenza generale del suddetto principio, che si impone nell’ordinamento pensionistico al di là del pluralismo delle gestioni e dei regimi.

Ciò, dunque, anche in disparte dagli argomenti desumibili dalle considerazioni svolte dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla comune appartenenza al regime dell’assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, avente struttura unitaria, sia della gestione lavoratori dipendenti che di quelle speciali dei lavoratori autonomi, e, in tale contesto, al ruolo svolto nella gestione previdenziale dei lavoratori autonomi, per il versamento dei contributi e la liquidazione della pensione, dal reddito d’impresa «analogo a quello svolto dalla retribuzione per i lavoratori dipendenti» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 18569 del 2008, e, in termini analoghi, sentenze n. 11930 e n. 771 del 2003).

6.3.– Difatti, se, come si è ricordato, il principio di esclusione dei contributi dannosi è chiamato ad assolvere la funzione di costituire un limite intrinseco alla discrezionalità del legislatore nella scelta, ad esso riservata, del criterio di individuazione del periodo di riferimento della retribuzione pensionabile (da ultimo, sentenze n. 82 del 2017 e n. 388 del 1995), tale esigenza si configura anche in riferimento al reddito pensionabile, e dunque anche nei confronti del regime previdenziale dei lavoratori autonomi.

Il sistema previdenziale è certamente improntato a logiche di solidarietà e non di mera corrispettività, ma anche per il regime pensionistico dei lavoratori autonomi iscritti all’INPS risulta irragionevole che il versamento di contributi correlati all’attività lavorativa prestata dopo il conseguimento del requisito per accedere alla pensione, anziché assolvere alla funzione fisiologica e naturale di incrementare il trattamento pensionistico, determini il paradossale effetto di ridurre l’entità della prestazione.

6.4.– Non sono, pertanto, condivisibili le argomentazioni addotte dall’INPS e dall’Avvocatura generale dello Stato che fanno leva sui ricordati aspetti diversificati delle discipline fra il sistema previdenziale dei lavoratori subordinati e quello dei lavoratori autonomi per escludere l’applicabilità a quest’ultimo del principio in esame.

Tali assunti, difatti, non risultano idonei a motivare in termini di ragionevolezza la predetta esclusione dei contributi “dannosi” al solo regime previdenziale del lavoro subordinato, o a quello cosiddetto parasubordinato, in quanto avente struttura contributiva simile a quella propria del lavoro subordinato.

Ad avviso di questa Corte, una volta adempiuti i propri obblighi contributivi e conseguiti i requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico in ottemperanza alle previsioni normative del sistema di appartenenza, anche nei confronti del lavoratore autonomo la prosecuzione dell’attività lavorativa e della correlata contribuzione dopo la maturazione dei predetti requisiti non può comportare una riduzione del trattamento “virtualmente” conseguito in tale momento.

Sotto diverso profilo, l’INPS obietta che il lavoratore avrebbe potuto accedere al trattamento pensionistico al maturarsi del requisito, per poi continuare l’attività conseguendo supplementi della pensione ovvero la pensione supplementare, ove ne ricorressero le condizioni di legge (art. 6 della legge n. 233 del 1990).

Nemmeno tali considerazioni dell’Istituto possono essere condivise.

Esse, oltre a fare riferimento a elementi fattuali connessi alle opzioni esercitate dall’interessato, risultano contraddittorie rispetto alle stesse finalità costantemente perseguite dagli interventi normativi adottati per assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, volti a favorire il mantenimento in attività di lavoro anche (e soprattutto) per ritardare l’accesso al trattamento pensionistico e il conseguente onere a carico della finanza pubblica.

Inoltre, la tesi espressa dall’Istituto determina ulteriori effetti irragionevoli.

Nel caso di specie il lavoratore autonomo che ha optato per la prosecuzione dell’attività lavorativa, anziché accedere al trattamento pensionistico e svolgere successivamente l’attività conseguendo, attraverso l’ulteriore contribuzione, supplementi della pensione o la pensione supplementare, si trova ad essere danneggiato sotto molteplici profili: non percepisce nel frattempo i ratei pensionistici che, com’è noto, sono cumulabili con i redditi da lavoro conseguiti successivamente; non percepisce, a fronte degli ulteriori contributi versati, alcun incremento della prestazione; per contro, subisce perfino una diminuzione del quantum determinabile alla data di maturazione dei requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico; in definitiva, a seguito del ritardato accesso al pensionamento, subisce un consistente pregiudizio patrimoniale, qualificabile sia in termini di lucro cessante che di danno emergente.

7.– Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni scrutinate, nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote del complessivo trattamento pensionistico, non prevedono, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo iscritto alla gestione speciale dell’INPS, che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, che la pensione liquidata non possa essere inferiore a quella che sarebbe spettata al raggiungimento dell’età pensionabile, con esclusione dal computo, sia per la quota A che per la quota B, dei periodi di contribuzione successivi ove comportino un trattamento pensionistico meno favorevole.

8.– L’accoglimento della questione in riferimento al parametro costituito dall’art. 3 Cost. comporta l’assorbimento degli altri parametri evocati dal giudice rimettente (artt. 35, primo comma, e 38, primo e secondo comma, Cost.).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della legge 2 agosto 1990, n. 233 (Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi), e dell’art. 1, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui, ai fini della determinazione delle rispettive quote di trattamento pensionistico, nel caso di prosecuzione della contribuzione da parte dell’assicurato lavoratore autonomo che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva minima, non prevedono l’esclusione dal computo della contribuzione successiva ove comporti un trattamento pensionistico meno favorevole.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giulio PROSPERETTI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2018.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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